Edizione 1 - Giugno 2000
Annidate in testi storici antichissimi, vi sono annotazioni a dir poco sorprendenti
apita a volte, sfogliando pagine di alcuni
particolari libri, di imbattersi in letture che sul momento lasciano alquanto
perplessi, allorché sembrano citare luoghi, personaggi o fatti riportati in
pubblicazioni di tutt'altro genere, molto lontane temporalmente,
geograficamente e culturalmente, di cui non ci si aspetterebbe minimamente di
trovare occorrenza nel testo che si sta scorrendo. È il genere di testimonianze
in cui ogni ricercatore sogna di imbattersi, poiché costituiscono insperate
evidenze a suffragio del costrutto teorico sul quale sta indagando.
Qui è dato un riscontro di un paio di dette
«coincidenze», nelle quali riecheggiano contenuti che per gli appassionati
della Terra di Mezzo potranno risultare senz'altro affascinanti.
Data la provenienza delle fonti, è alquanto
azzardato ipotizzare connessioni di qualsivoglia natura con l'opera di Tolkien
nella sua concezione e nel suo divenire. Per ora, basterà accontentarsi di
prenderne atto, riservandosi magari ulteriori approfondimenti facenti seguito a
studi specifici più accurati.
Il primo dei due reperti in questione si trova in un
testo alchemico settecentesco, una raccolta di «Favole egizie e greche» rielaborate
dalla penna di A. Pernety, ma le cui fonti discendono senz'altro da reperti di
ben altra epoca, come illustrato di seguito. Nel volume in questione, edito da
Libritalia, le due mitologie - ellenica e nilotica - sono analizzate ed illustrate
secondo i canoni della Dottrina Segreta. Nel capitolo relativo al ruolo delle
piante e degli animali nella mitologia egizia, a pagina 99 dell'edizione
citata, è annotata la frase «… i Filosofi hanno dato il nome di Athanor al loro fornello segreto».
La somiglianza con la ben nota Fiamma di Anor,
gelosamente custodita da Gandalf, non passa certo inosservata.
È possibile che Tolkien fosse venuto in possesso di
testi analoghi, nel corso dei suoi studi, e che la parola anor gli si sia impressa nella mente, nell'accezione ignea che la
contraddistingue in questo contesto? Di sicuro vi è che l'alchimia affonda le
sue radici nella notte dei tempi, nell'Egitto predinastico, quando i semidei
regnavano sugli uomini della valle del Nilo. Dunque, l'idea di identificare il
fuoco con un termine simile risale quantomeno al periodo protostorico. Donde il
Maestro abbia tratto lo spunto per derivare le parole per la fiamma, nei vari
idiomi elfici, non sappiamo; ma l'idea che, nel suo processo di generazione dei
linguaggi, abbia ripercorso più o meno le medesime tappe dell'antichissimo
popolo a cui si deve la lingua arcaica citata dai Filosofi ermetici, è
affascinante, almeno quanto lo sarebbe la fantasmagorica scoperta che le stesse
saghe di Eldar ed Edain traggono spunto da testi originali dell'epoca
protostorica, chissà come ritrovati e rielaborati da Tolkien. Al di là di quale
sia la verità, rimane il fatto che in un'epoca storica remota ci si rivolgeva
alla fiamma come ad anor, né più né meno
di quanto facevano gli abitanti dell'Ovesturia.
Il secondo ritrovamento è ancora più inquietante, se
non altro per la fonte da cui proviene: si trova infatti in un frammento
facente parte di un testo in lingua copta, ove un autore ignoto riporta la sua
versione della vita pubblica e della Passione di Gesù Cristo. Tale testo è nel
novero dei «Vangeli Apocrifi» ammessi allo studio dai teologi, così come sono
riportati nel compendio critico curato da L. Moraldi sotto lo stesso titolo,
edito da Piemme. Uno di questi frammenti, alla pagina 205 dell'opera in questione,
recita: «[Gesù] Prese Melchir e lo legò con una catena di ferro e acciaio».
Le parole di Tolkien a proposito della caduta
dell'Oscuro Signore al termine della Guerra d'Ira, allorché venne sopraffatto e
costretto nella ferrea Angainor, sono praticamente identiche.
Per completare la disamina, vale la pena aggiungere
che il testo originale è unanimemente identificato come il Vangelo di Bartolomeo, nonostante l'identità del vero autore sia
tuttora da stabilire; studi critici ne collocano la stesura tra il V ed il VII
secolo, pur non escludendo che siano a loro volta trascrizioni di testi più
antichi. E. Revillout vi dedicò una pubblicazione nel 1907, quindi anche in
questo caso non è da escludere che Tolkien abbia avuto modo di prenderne visione, ammesso che possa dirsi
alcunché di veridico circa la sua concezione in merito alla letteratura
apocrifa neotestamentaria. Probabilmente, da appassionato filologo, avrebbe
apprezzato tali documenti quantomeno per l'interesse che essi muovono dal punto
di vista linguistico.
Per inciso, il passo che ospita la citazione in
questione narra della discesa di Cristo nel Regno dei Morti (Amenti) e della sconfitta che infligge
alla Morte. A tutt'ora non mi è stato possibile identificare con certezza
l'origine del nome «Melchir», del quale manca qualsiasi riscontro nel materiale
a disposizione per poter dire a chi si riferiva l'autore, se cioè al Diavolo in
persona o ad altro personaggio.
Chiaramente, prima di trarre qualunque tipo di
conclusione, occorrerebbe effettuare indagini più approfondite circa la
possibilità o meno che il Maestro conoscesse, dalle fonti citate o da altre, l'esistenza
dei nomi trattati. Solamente in base all'esito di tali indagini determinate
ipotesi potranno risultare verosimili.
Speculando ancora un poco, per puro diletto, possiamo
lasciare questa piccola provocazione: gli Elfi descritti da Tolkien hanno un
riscontro storiografico nei Re di origine divina della tradizione egizia
predinastica, così come il passo biblico seguente richiama alla mente degli
appassionati i Signori di Númenor: «In quel tempo vi erano i Nefilim sulla
terra e ve ne furono anche dopo che i figli di Dio si erano uniti alle figlie
degli Uomini ed esse avevano loro partorito dei figliuoli. Sono essi quegli
eroi famosi fin dai tempi antichi» (Genesi, 6-4). Gioverà ricordare che nefilim è tradotto da alcuni biblisti
con «giganti», ed in effetti i Númenoreani sono descritti come più alti e più
dotati degli Uomini; e che dire della considerazione di cui godettero i
Mezzielfi presso la gente dellOvest?
Gianluca Comastri
"Le favole Egizie e Greche", Dom Antonio Pernety,
Libritalia, 1997;
"Vangeli Apocrifi", Luigi Moraldi, Piemme, 1996.
Postille
Settembre 2001 - Un'altra
citazione, di genere lievemente diverso ma non per questo meno
spettacolare, è giunta all'occhio dalle pagine de «L'uomo alla conquista
dell'anima» (Artestampa, 1993); vi si riferisce degli esperimenti di
metapsichica condotti dal banchiere F. Kluski, dei quali il prof.
Pawloski rese testimonianza in una relazione a sua firma sul Journal
of the American Society for Psychical Research risalente al 1925.
Kluski deve essere stato un medium di potenza davvero impressionante,
a giudicare dal gran numero di apparizioni e materializzazioni che
abitualmente otteneva, ma fra queste ve n'è una in particolare, descritta
come alquanto rara nelle sue manifestazioni, sulla quale non possiamo
restare totalmente indifferenti. Si tratta della solenne apparenza d'un
sedicente anziano, del quale si rimarca la grande luminosità tale da
rischiarare perfino gli angoli della sala buia adibita a gabinetto
degli esperimenti, luminosità che pare scaturire da mezzo il petto e
dai palmi delle mani con maggiore intensità. Costui calcava un cappello
a punta ed ostentava una lunga barba grigia (non è dato sapere, purtroppo,
se recasse anche un nodoso bastone); inoltre, per lo sconforto del
consesso dei presenti, nonostante essi potessero disporre delle conoscenze
per conversare in almeno una dozzina di linguaggi antichi e moderni,
non fu possibile interpretare l'idioma con cui questa figura si esprimeva.
Il gruppo di studio lo denominò «Sacerdote Assiro». Serve forse che
specifichi quale personaggio ricorda? (G.C.)