Edizione 1 - Settembre 2001
Fiaba, epopea, cronaca: lo sfuggente significato delle opere che raccontano della Terra di Mezzo
in dal loro primo ingresso nel panorama letterario mondiale, i romanzi di Tolkien
hanno acceso verbose discussioni, tanto fra il grande
pubblico quanto nel più ristretto ambito della critica,
circa la corretta interpretazione del loro significato.
Attualmente, sull'onda di un ritorno di popolarità che
vede incrementarsi considerevolmente il numero degli
appassionati, e stante l'affermazione della Rete come
nuovo mezzo comunicativo di massa, si assiste ad un
proliferare di siti dedicati alle opere del Professore;
ciò dona la possibilità ad un numero sempre crescente di
opinionisti, a tutti i livelli, di esprimere il proprio commento
rinfocolando così l'antico dibattito.
Paradossalmente, fra una tale messe di recensioni, le parole che risuonano meno
frequentemente sono proprio quelle dello stesso Tolkien;
eppure, l'autore ebbe spesso a commentare a proposito
della sua saga, nei ripetuti carteggi che tenne
durante la sua carriera. Così, pur nel pieno rispetto della
saggistica che in tutti questi anni si è occupata di tale
questione, la presente pagina intende riesumare gli
importantissimi, e molto significativi, pareri del
Professore circa il processo creativo che lo portò a
comporre i romanzi e tutti gli scritti a corredo, fino ad
offrire una panoramica dei vari piani di lettura a confronto
reciproco, e scoprire come in realtà Tolkien stesso si
rapportava - e avrebbe voluto che i suoi lettori facessero -
col meraviglioso mondo di Arda.
Una vicenda ambientata fra reami antichi e blasonati, creature eteree e trascendenti
e mostruosi demoni non poteva che essere classificata
nel novero dei racconti fiabeschi (Of course,
assecondando lo stereotipo del lettore britannico):
e così, invariabilmente, avvenne nel caso dell'uscita
sugli scaffali dei librai della prima edizione di «The
Lord of the Rings». Nulla di disdicevole per il
Professore, di cui si tramanda che aborrisse la
lettura di qualsivoglia romanzo al di fuori del filone
fantastico, e che ponesse la fiaba al più alto grado della
scala dei generi letterari.
Peraltro, una fiaba che si rispetti deve contenere una morale, più o meno evidente;
ma se questa è facilmente individuabile nei brevi brani delle
raccolte esopiche, nell'arco delle migliaia di pagine che
narrano delle Guerre dell'Anello e delle avventure
hobbit la cosa si complica - a causa delle varie e
numerose trame che s'intrecciano nel corso della
narrazione, che abbraccia comunque un periodo di tempo
misurabile in anni. Qualora poi si prenda in esame anche
l'immenso patrimonio di materiale preparatorio,
concernente mitologie, linguistica, geografia e storia
relative a tutti i popoli della Terra di Mezzo nell'arco di tre Ere
del mondo, il panorama si complica vieppiù. Ridurre il tutto
ad un'allegoria della lotta fra il Bene e il Male appare,
sebbene azzeccato, comunque riduttivo - un argomento del
genere poteva anche essere schematizzato in un romanzo
d'avventura più tradizionalista, senza bisogno di ricostruire
la storia del pianeta partendo addirittura dalla cosmologia.
Taluni ravvisano, nella potenza di fuoco e nella collocazione
geografica delle fortezze dei Signori dell'Ombra, un
quadro della situazione politica del tempo in cui Tolkien
compose il progetto dell'opera, vale a dire il tristo scenario
delle Guerre Mondiali: Tolkien tuttavia negò più volte qualunque
riferimento diretto di questo genere, anche se nella lettera
alla signorina Beare egli dice che il romanzo «è solamente
un'invenzione, per esprimere, nell'unico modo che
conosco, alcune delle mie (cupe) apprensioni nei riguardi
del mondo». Poco prima, però, parlando della dicotomia
fra i Valar e Morgoth e del ruolo dell'Uno, afferma con
decisione: «Devo dire che tutto questo è un mito», aprendo
- con questo ed altri riferimenti - ad un'interpretazione
dell'opera di livello differente.
Dell'argomentazione in favore della visuale mitologica delle opere tolkieniane verrà
dato solo qualche breve accenno, data la complessità che una
simile analisi richiederebbe - e che altri, ivi compresi alcuni
autori di cui Eldalië si onora di pubblicare i testi, hanno
già affrontato con degni risultati.
Basterà ricordare che la componente leggendaria ha un peso notevole, nell'ambito
della saga della Terra di Mezzo; assai più che in alcuna
altra pubblicazione di cui si abbia notizia. Numerose
citazioni attestano il fatto che il Professore, appassionato
della storia delle sue terre e spiaciuto che, a
differenza di quanto accade per altre realtà nordiche, gran
parte delle leggende più antiche fosse andata perduta,
si fosse affaccendato per colmare la lacuna redigendo in
proprio alcunché di analogo (il reale motivo per cui ciò
ebbe luogo, peraltro, è assai ben descritto su Ardalambion
a proposito del «vizio
non proprio segreto»). Il risultato è quel corposo
novero di tradizioni, di cui il Silmarillion non è
che un succinto compendio, e che contribuisce in modo
notevole al prestigio ed al fascino dei romanzi.
Aggiungere altre notizie sul filone mitologico distoglierebbe dallo scopo del presente
articolo, e non renderebbe giustizia ad una tematica che
richiederebbe ben altro approfondimento.
Tuttavia, l'esame delle fonti porta alla luce un tema
ugualmente intrigante, mai enunciato apertamente
sebbene lasciato intravvedere, quasi ammiccante, «tra
le righe» delle varie pubblicazioni di Tolkien.
«In una buca nel terreno, lì vive uno Hobbit». Da questa semplice frase, poco più che un ghiribizzo annotato fra carteggi di tesi accademiche di un laureando J.R.R. Tolkien, sarebbe scaturita la monumentale storia delle Guerre dei Gioielli e dell'Unico Anello. Cosa che forse molti già conoscono, ma che a dispetto della sua notorietà appare ugualmente straordinaria, è che al momento di vergare di getto quelle parole Tolkien non aveva la minima idea di cosa fosse un Hobbit - nel giro di qualche decennio, comunque, il concetto gli si sarebbe ben chiarito... Ulrike Killer (si veda la postfazione all'opera citata in calce al presente articolo, la cui lettura è senza dubbio illuminante) pone questo famoso aneddoto in relazione con un'altra asserzione, più tarda, del Professore: «Sempre ho avuto l'impressione di descrivere qualcosa che era già "lì", che esisteva [...]». Dunque, Tolkien si poneva nei confronti della Terra di Mezzo in modo affatto particolare, rispetto a quanto avviene per un romanziere tradizionale alle prese con i luoghi, i personaggi e le vicende che dalla sua fantasia creativa scaturiscono: né di questo faceva mistero.
Nella bozza della lettera a W.H. Auden, il concetto è esplicitato con sublime chiarezza: «Io ho la mentalità dello storico. La Terra-di-mezzo non è un mondo immaginario. Il nome è la forma moderna (apparsa nel XIII secolo e ancora in uso) di midden-erd/middel-erd, l'antico nome di oikoumene [...]». Dunque, nel caso di Arda e dei suoi abitanti si può legittimamente parlare di un mondo "inventato", a patto però di leggere il termine nella sua originaria accezione di "scoperto". Tolkien poneva sul medesimo piano le scoperte che effettuava ricercando sui suoi testi di riferimento (dal Kalevala ai poemi gaelici che tradusse, e così via per ciascun volume della nutrita raccolta che aveva accantonato, e che non mancò d'impressionare Humphrey Carpenter) e le scoperte, a livello intellettuale, che gli permettevano di divisare linguaggi, miti, personaggi e luoghi: da ciò ebbe sempre la convinzione di incarnare il ruolo dello storico - descrivendo però fatti di cui non poteva essere stato testimone oculare, e che pure gli si svolgevano dinanzi in modo non meno evidente, quantunque non sensibile. Nella lettera ad A.C. Nunn scrisse: «[...] per quanto riguarda la Terza Età mi considero un semplice "cronista"» (l'oggetto della disputa epistolare era una presunta incongruenza che Nunn aveva riscontrato riguardo al tema dei regali ai compleanni Hobbit). Si potrebbe pensare ad una tale immedesimazione come a qualcosa di non consono alla dignità di un illustre accademico, per di più appartenente ad una genìa la cui flemma è addirittura proverbiale: andando però ad esaminare talune circostanze, si scopre che tanto entusiasmo poteva avere per lo meno qualche giustificazione.
Sempre nella postfazione di U. Killer è citato un episodio assai pregnante, che risale
al periodo in cui Tolkien era ancora immerso nello studio
della poesia in inglese antico. Orbene, da un testo
datato attorno al VIII secolo, dovuto probabilmente
alla penna d'un tale Cynewulf, emersero due versi
che non potranno lasciare indifferente un lettore
che abbia amato i romanzi sulla Terra di Mezzo:
che suonano più o meno «Evviva Earendel, angelo radioso / mandato dagli uomini
dalla Terra-di-mezzo». Chiaramente la dotta
scoperta è anteriore alla composizione delle
saghe - diversamente saremmo a parlare di un
chiaroveggente, emulo del celebre Nostradamus
ma con l'attitudine opposta, rispetto a quella
del celeberrimo divinatore, vale a dire di captare
alla lettera eventi di epoche remote; quando
invece Tolkien recava tutte le apparenze di un
brillante studioso di lingue col pallino della
narrativa fantastica, ma non si ha notizia del
fatto che possedesse un Palantír col quale
esplorare a ritroso i millenni trascorsi. Comunque
la si metta, la lettura di quei versi mise in
subbuglio l'estro creativo del Professore, e gli
ridestò nell'animo perduti ricordi di un eroe
protostorico, che giunse in guisa di mistico faro
in soccorso dell'umanità vessata dai Signori del
Male; di lì sarebbe iniziato il percorso che portò
poi alla successiva stesura delle storie delle Fate,
poi divenute Elfi, e del loro ingresso nel mondo
fino all'avvento dei Mezzuomini - e si ricordi che
tutto questo avveniva nel nostro mondo,
e più precisamente nel suo bel mezzo, la
middangeard degli antichi: dunque in un
luogo ben determinato, sito (sempre secondo la
lettera alla Beare) nei pressi dell'odierna Europa;
quanto al periodo, sarebbe arretrato di due ere
rispetto ai giorni nostri, che corrisponderebbero
così alla Quinta Era*. Si direbbe che il puntiglio
nel collocare nel tempo e nello spazio il teatro
delle vicende sortisca un effetto talmente
"realistico" e verosimile, da far nascere per lo
meno l'ombra di un sospetto: tanto più se
si considera la presenza di talune circostanze,
come quelle di cui si dà cenno nella conclusione... Quanto sopra non abbisogna di alcuna dichiarazione chiarificatrice in calce, dal
momento che l'intero articolo nasce con
funzione di commento in merito alle possibili
interpretazioni del senso dei romanzi di Tolkien. Pertanto, volendo evitare reiterate ripetizioni di concetti già esposti, e per non scadere
nel vizio dell'autocitazione, si rimanda direttamente a
quanto sottolineato nel commento finale di un altro articolo
della presente raccolta, Strani
ritrovamenti, circa possibili appigli per un'ipotetica
collocazione dell'epopea elfica nella storia del pianeta
- i quali non mancano. Si badi bene, non si tratta che di
speculazioni; è però innegabile che da esse promana
un'aura di mistero che arricchisce vieppiù l'opera del
Professore. Gianluca Comastri "Antologia di J.R.R. Tolkien", Ulrike Killer, Rusconi, 1995
* A onor del vero, i recenti studi compiuti dagli scienziati Robert Bauval,
Graham Hancock, Adrian Gilbert e Maurice Cotterell
sono coerenti nel datare l'ultimo grande
diluvio e gli eventi catastrofici, che si ipotizzano
correlati alla scomparsa della misteriosa
civiltà denominata Atlantide, circa 10.500 anni
prima di Cristo; ma ovviamente Tolkien, nel
periodo in cui scrisse l'Akallabêth, non
poteva essere al corrente di tali teorie.
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Bibliografia