Edizione 1 - Settembre 2001
di Echtelion -
introduzione e commento di Gianluca Comastri
In questo articolo, l'autore si propone di compiere alcune osservazioni in merito al complesso tema del sostrato culturale sul quale Tolkien innestò la concezione mitologica dei suoi romanzi. La tematica viene sviscerata ricorrendo a due livelli di lettura distinti: l'uno che evidenzia il legame fra detta concezione mitologica e i dettami elementari della teosofia cattolica; l'altro che mira all'individuazione di un possibile parallelo fra razze e popoli della Terra di Mezzo e l'umanità attuale - con la variabile concezione del senso morale e propensione alla spiritualità dei singoli individui a far da discriminante, giusta la suddivisione in classi operata in tal senso da don Giussani. Ne risulta un'analisi che offre interessanti spunti di riflessione. (G.C.)
i siete mai chiesti cosa stia veramente dietro alla
macchina mitologica Tolkieniana, alla creazione non solo di alcuni personaggi,
ma di un mondo e di una storia completa? Le risposte sono a più livelli.
Il livello più banale di comprensione del
background del complesso mitologico del Maestro (Tolkien, ovviamente) è
l’arrivare a capire, come afferma Tolkien stesso, che la sua creazione di una
mitologia completa fu dovuta, in parte, al fatto che lui era desideroso che il
suo Paese, l’Inghilterra, possedesse una tradizione di leggende pari a quelle
scandinave, germaniche, o più famose ancora, greche o latine. Queste
mitologie erano un po’ l’unica cosa che Tolkien sentisse come punto che
l’Inghilterra, culturalmente, aveva da invidiare alle altre civiltà europee. E
dunque, da lì l’idea di dare una sua versione della creazione del mondo,
l’introduzione di nuove divinità, la creazione di un altro popolo, assimilabile,
in parte, ai più antichi avi degli anglosassoni, e l’invenzione e creazione
complete di due lingue: Quenya e Sindarin. Queste due lingue, difatti, sono
modellate su due idiomi antichi che il Maestro conosceva bene: il Quenya,
ingua dei raffinati e nobili Calaquendi (Vanyar, Noldor e Teleri), si basa sul
latino, considerata in parte la madre delle lingue, la più raffinata e nobile;
il Sindarin, invece, lingua dei selvaggi e, se vogliamo, meno sviluppati
culturalmente, Umanyar (Sindar, Elfi Grigi e tutti gli elfi del Beleriand che
non seguirono Fëanor), modellata sul più rozzo e grossolano, ma anche
meno aulico, anglosassone, che Tolkien conosceva come se fosse la
propria lingua, tanto da aver tradotto il più grande poema redatto in
questa lingua, il Beowulf.
Comunque, questa è una risposta parziale alla
creazione di Arda, il mondo di elfi ed uomini, da parte di Tolkien: è tanto
grande la passione che il Maestro infuse nella creazione di tutto ciò, che
non si può spiegare semplicemente dicendo che voleva riportare l’Inghilterra
al pari delle altre nazioni, in quanto a miti, anche perché sapeva che un uomo
solo, per quanto geniale com’era lui, non può creare una mitologia accettata
da tutti, perché una leggenda è una storia popolare volta a spiegare un
aspetto della vita, non il racconto di un geniale scrittore.
Entra dunque in gioco il secondo fattore, il
secondo livello di critica: abbiamo il fatto che Tolkien voleva rispiegare,
rielaborare, a modo suo, la mitologia cattolica classica, diventata, per molti,
un complesso di noiose e poco interessanti favolette, che sono troppo
assurde per sembrare vere, e troppo semplici per essere avvincenti.
Tolkien sapeva che molte persone la pensavano
e la pensano tuttora così, e dunque, da buon cattolico, e da buon genio
qual era, decise di inventare questa lunghissima e spettacolare allegoria
del nostro mondo, trasformandolo in Arda. Infatti, basta cambiare i nomi,
ed ecco tutto il nostro “pantheon” di divinità e di santi, trasferito in Valinor.
Abbiamo dunque la Trinità, e cioè Eru Ilúvatar, il padre e creatore, eterno,
onnipotente ed onnisciente, che è l’equivalente del Signore nostro Dio, il
Padre, Manwë Sulimo, re degli dei e più potente di loro, che noi, oggi,
chiamiamo Gesù Cristo, il Figlio, ed infine abbiamo la fiamma imperitura,
il fuoco che Ilúvatar pose nel centro di Arda e che è ivi celata alle brame
di Melkor, che il Vangelo chiama Spirito Santo che, secondo il Credo, “è
Signore e dà la vita”, proprio come la fiamma di Arda.
Accanto alla Trinità, abbiamo figure minori:
assieme ad Eru vi sono gli Ainur che hanno deciso di rimanere al fianco di
Ilúvatar, per l’eternità, e noi li conosciamo come i suoi angeli; accanto a
Manwë, invece, abbiamo Varda, la nostra Maria Vergine, e tutti gli Ainur,
considerabili come gli odierni santi del Paradiso (anche Tolkien li chiama,
nel suo mondo, i Santi).
Abbiamo poi Melkor, il più potente degli Ainur,
corrotto dal male e caduto in disgrazia, che è come Lucifero, o Satana,
l’arcangelo più potente, il quale è caduto anch’egli; e Melkor corrompe
e si fa seguire da molti Ainur, tra i quali Sauron ed i Balrog; e questi noi
li chiamiamo demoni, e molti hanno anche nomi, nella nostra tradizione.
E dunque, tra il sistema religioso di Arda e quello cattolico le differenze
sono minime, e quasi solo nei nomi (tranne, ovviamente, nelle loro opere);
e questo è il secondo motivo che spinse il Maestro, anche a detta di
Christopher, il suo secondo rampollo, a creare Arda.
Vi è poi il terzo ed ultimo livello, il più complicato
e nascosto, tra le parole di Tolkien, e quindi quello che meno facilmente si
riesce a comprendere. Per prima cosa, individuiamo alcune categorie nelle
popolazioni le cui vicende sono narrate da Tolkien: abbiamo gli elfi,
ovviamente, e poi vari tipi di umani, che sarebbero gli Edain ed i
Numenoreani, che sono gli uomini più simili agli elfi, per nobiltà di cuore, e
che Tolkien descriveva, con le parole di Faramir, come gli uomini Alti o
dell’Ovest; abbiamo poi gli uomini come i guerrieri Rohirrim ed i più nobili
e puri di Gondor della terza era, cioè quelli che ancora hanno un lignaggio
ed un cuore nobili, anche se non al livello dei loro avi, e sono parte di quelli
che Faramir chiama gli uomini Mediani, oppure uomini del Vespro; troviamo
poi gli uomini più normali, codardi e vili, senza virtù particolari, e sono il
resto dei Mediani; e poi abbiamo gli Haradrim ed i Sudroni, i malvagi e
corrotti servitori di Melkor, o di Sauron, e questi sono detti uomini Bradi, o dell’Oscurità.
Cambiando momentaneamente discorso, ma ciò
che sto per dire mi permetterà fra poco di spiegare l’ultimo passo della
filosofia del nostro geniale Maestro, a mio avviso Tolkien individuava in se
stesso, e negli uomini più puri di cuore, quali i grandi poeti del passato, o
gli scrittori, o gli artisti veri, una pulsione verso qualcosa di più grande di
loro, della loro vita, del mondo in cui vivevano: avvertivano la presenza del
Mistero, la presenza di Dio, inspiegabile ma percettibile e innegabile; ed è
proprio questa presenza del Mistero che rende gli uomini puri non soltanto
diversi dagli animali, ma creati ad immagine e somiglianza di Dio.
A mio avviso, perché questa interpretazione è il
frutto di un mio personale studio e confronto, il Maestro identificava
nell’umanità dei suoi tempi, ma anche in quella di oggi, quattro categorie,
che si sposano con le razze che abbiamo individuato poco fa. Abbiamo
dunque gli uomini corrotti e malvagi di oggi, i criminali, i delinquenti, gli
assassini, i pedofili, e tutti coloro che deviano dal sentiero che porta a Dio
per seguire una strada di iniquità, di misfatti e di delitti, e sono sedotti dal
diavolo, e reprimono, uccidono la propria coscienza ed umanità; questi sono
gli uomini Bradi di Tolkien: coloro che seguono il Male invece del Bene. Vi
sono poi gli uomini normali. Questa frase non sembra niente di speciale,
ma paradossalmente sono proprio questi uomini normali il cancro
dell’umanità di oggi, e di quella dei tempi di Tolkien: loro non compiono
grossi misfatti, non seguono palesemente il Male, non deviano dal percorso
che porta a Dio, ma temporeggiano, si fermano, tentennano, si voltano,
fuggono, si perdono, ma senza alcuna intenzione di seguire la pulsione
originale verso il Mistero; anzi, sopprimono questo impulso, lo reprimono
dentro di sé con obiezioni alla sua esistenza, e continuano imperterriti a
vivere, impeccabili in superficie, ma meschini e vili dentro; e questi sono
il primo gruppo dei Mediani, gli uomini del Vespro, il gruppo più meschino.
Vi sono poi quegli uomini che, pur non vivendo
in mezzo agli uomini “normali”, riescono ad uscire dal soffocamento che
la società odierna, in mano a questi “uomini normali” opera su certe
esigenze dell’uomo: la verità, la giustizia, l’amore (quello vero, non solo
l’impulso carnale), la libertà, e che costituiscono il vero cuore dell’uomo,
quello che accetta la presenza del Mistero; questi sono i guerrieri dei
Rohirrim, ed i più nobili di cuore di Gondor, insomma, il secondo gruppo
dei Mediani di Faramir. Continuando, troviamo quegli uomini che hanno
ormai accettato l’idea di essere diversi dagli “uomini normali”, e di essere
più vicini al Mistero, e con varie gradazioni si avvicinano sempre di più alla
comprensione di Esso, alla sintonia con Esso; sono gli uomini Alti, Edain e Numenoreani.
Infine, vi sono gli elfi. Potrebbero sembrare solo un grado maggiore rispetto ai tipi uomini che ho finora descritto, ma in loro tutto cambia. Mi spiego: l’ultima categoria di uomini non solo è più in contatto con il Mistero, ma lo percepisce, sente fortemente di essere parte di questo, e può solo esternare questo con forme d’arte, con poesie, canzoni, libri, saggi, testi, sculture, dipinti, e molte altre forme artistiche le quali esprimano la sua grande ansietà, la sua grande pulsione verso l’infinità di Dio, della quale sentono, anzi, sanno, percepiscono di essere una parte. Questi uomini sono sempre meno, al giorno d’oggi, e sono i grandi poeti e scrittori, i grandi artisti di ogni genere, ma in ogni caso pochi eletti, pochi scelti e fortunati, anche se non sono essi artisti. Mi riferisco a persone del calibro di Pascoli o Leopardi, Picasso o Tolkien stesso, Mozart o Beethoven o, per andare più indietro, Caravaggio, oppure, alle origini dell’arte, Omero e gli scultori greci. Oggi gli elfi, come nella terza e, poi, nella quarta era della Terra di Mezzo, sono sempre, più rari, anche se sono comunque i soliti, perfetti esseri, la cui anima, nel mondo nostro, e corpo, in Arda, sono immortali.
Echtelion
Sono in molti, ormai, gli studiosi ed appassionati che si interrogano - e propongono le loro interpretazioni in merito - circa origini e significato intimo del costrutto mitologico tolkieniano. Evidentemente la questione desta un profondo interesse che, visto l'argomento, si potrebbe definire di carattere «esegetico».
La lettura dei miti di Arda proposta nell'articolo è senza dubbio degna di interesse; è tuttavia possibile confrontarla con alcuni giudizi espressi in merito dallo stesso Tolkien, e la si potrà integrare con alcune considerazioni, per così dire, di complemento.
Accanto ad interpretazioni allegoriche come quella doviziosamente illustrata nei paragrafi precedenti, vi è un ulteriore piano di lettura non meno importante ed affascinante: l'analisi del testo del romanzo in chiave «storica». Il tema, enucleato nel breve articolo Oltre la lettura, è quello che il Professore riportò in diverse sue lettere, relativo al suo atteggiamento nei confronti del mondo da egli stesso creato; atteggiamento che l'autore descrisse come da storico, piuttosto che da semplice fabulatore. Vale a dire che egli componeva le cronache di Eriador e del Beleriand da vero e proprio cronista, che veda e riporti fatti succedutisi in un altrove, non meno reale e concreto rispetto alle terre britanniche del secolo scorso in cui egli svolse la sua vicenda terrena. D'altra parte, come pure sottolineato nel commento finale di un altro articolo della presente raccolta, Strani ritrovamenti, possibili appigli per un'ipotetica collocazione dell'epopea elfica nella storia del pianeta non mancano. Si badi bene, non si tratta che di speculazioni; è però innegabile che da esse promana un'aura di mistero che arricchisce vieppiù l'opera del Professore.
Gianluca Comastri
"Il Signore degli Anelli", J.R.R. Tolkien, Rusconi, 1977;
"Il Silmarillion", J.R.R. Tolkien, Rusconi, 1978.
"Il senso religioso", Luigi Giussani, Rizzoli, 1997.